Le lingue romanze, lingue latine o lingue neolatine, sono le lingue derivate da latino, non già dal latino classico, bensì da quello volgare ossia “popolare”, costituito dalle varietà linguistiche sviluppatesi a seguito dell’espansione dell’impero romano.
L’italiano, lingua neolatina parlata principalmente in Italia, è anche una delle lingue ufficiali dell’Unione Europea, di San Marino, della Svizzera, della Città del Vaticano e del Sovrano militare ordine di Malta. E’, inoltre, riconosciuto e tutelato come “lingua della minoranza nazionale italiana” dalla Costituzione slovena e croata nei territori in cui vivono popolazioni di dialetto istriano.
E’ ampiamente conosciuto anche per ragioni pratiche, in diverse aree geografiche, ed è una delle lingue straniere più studiate al mondo.
Lingua neolatina, dunque, derivata dal latino volgare parlato in Italia nell’antichità romana e profondamente trasformatosi nel corso dei secoli. Con la caduta dell’Impero romano e la formazione dei regni romano-barbarici, si assiste ad una sorta di sclerotizzazione del latino scritto (che diviene lingua amministrativa e scolastica), mentre il latino parlato si fonde sempre più intimamente con i dialetti dei popoli latinizzati, dando vita alle lingue neolatine. Gli storici della lingua qualificano le parlate che si svilupparono in questo modo in Italia durante il Medioevo come “volgari italiani”, al plurale, e non ancora “lingua italiana”.
Le differenze tra le parlate delle diverse zone sono marcate, mentre manca un comune modello volgare di riferimento. Il primo documento tradizionalmente riconosciuto di uso di un volgare italiano è un placito notarile, conservato nell’abbazia di Montecassino, proveniente dal Principato di Capua e risalente al 960: è il “Placito cassinese” (detto anche “Placito capuano” o “Carta capuana”). Trattasi di una testimonianza giurata di un abitante circa una lite, tesa a testimoniare l’appartenenza a Montecassino di alcune terre di cui si contendeva la proprietà da parte di privati: “Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”. (So (dichiaro) che quelle terre nei confini qui contenuti per trent’anni sono state possedute dall’ordine benedettino).
Nella “Storia della Lingua Italiana” di Stefano Lanuzza riguardo alla formula del predetto giuramento, si afferma che “si è in presenza, per la prima volta, di una frase italiana”, a differenza di analoghe tracce di parlato registrate in altre regioni d’Italia.
E’ da ricordare che uno dei primi casi di diffusione sovraregionale della lingua è la poesia della Scuola siciliana, scritta in siciliano “illustre” perché arricchito da francesismi, provenzalismi e latinismi, da numerosi poeti (non tutti siciliani) attivi prima della metà del Duecento nell’ambiente della corte imperiale.
Il contributo della scuola siciliana fu senza dubbio notevole, ma l’assetto dell’italiano però discende in sostanza da quello del volgare fiorentino trecentesco.
L’italiano è rimasto per lungo tempo soprattutto la lingua scritta dei letterati che avevano scelto di utilizzare per le loro opere la lingua letteraria del Petrarca. Fu Pietro Bembo, nel Cinquecento, a proporre agli altri letterati italiani, come lingua comune letteraria, il fiorentino trecentesco del Petrarca, proposta che passò a maggioranza; in effetti, la questione risolta dal Bembo non era “quale lingua comune per gli italiani?” ma “in quale lingua comune scrivere la prosa e la letteratura?”
Fino alla seconda metà dell’Ottocento solo fasce molto ridotte della popolazione italiana erano in grado di esprimersi in italiano. Secondo la stima del grande linguista Tullio De Mauro, nel 1861, ossia allorquando fu proclamata l’Unità d’Italia, era in grado di parlare in italiano solo il 2,5 % della popolazione nazionale; molto più ottimistica la stima di Arrigo Castellani, che alla stessa data faceva salire la percentuale al 10 %. Il dibattito risorgimentale di adottare una lingua comune per l’Italia, che proprio allora stava nascendo come nazione, vide il coinvolgimento di varie personalità come Carlo Cattaneo, Alessandro Manzoni, Francesco De Sanctis; ma si deve particolarmente al Manzoni l’aver elevato il fiorentino a modello nazionale linguistico, con la pubblicazione nel 1842 de “I promessi sposi”, che sarebbe diventato il testo di riferimento della nuova prosa italiana.
In seguito, fattori storici quali l’unificazione politica, il mescolamento degli uomini nelle truppe durante la prima guerra mondiale e le trasmissioni radiofoniche hanno contribuito ad una diffusione graduale e capillare dell’italiano. Nella seconda metà del Novecento in particolare, la diffusione della lingua è stata accelerata anche col contributo della televisione e delle migrazioni interne dal Sud al Nord. Fondamentale è stato il divieto di utilizzare con funzione pubblica (scuola, atti pubblici,ecc.) i dialetti italiani e le lingue delle minoranze linguistiche.
Solo con la Costituzione repubblicana del 1947, in vigore dal 1° gennaio 1948, è stata riconosciuta in Italia la presenza di altre lingue oltre la lingua ufficiale e vietata ogni forma di discriminazione su base linguistica.
Gino Tino
