La maggior parte della popolazione italiana sta vivendo un’esperienza senza precedenti. La generazione che ha vissuto entrambe le guerre del secolo scorso, quella del 1915-‘18 e quella del 1940-’45, non esiste più, mentre è ancora vivente una piccola parte di quella che ha vissuto solo la tragedia della 2° Guerra mondiale. Queste persone ricordano, con terrore, i coprifuoco, i rifugi antiaerei, le privazioni quasi totali di beni alimentari, di acqua, di luce, di riscaldamento, di coperte, l’impossibilità di uscire nei periodi più intensi dei bombardamenti, quando anche le abitazioni erano a rischio e bisognava nascondersi nei rifugi sotterranei. Cessato il coprifuoco si andava alla ricerca spasmodica di cibo: pane, olio, farina, patate, verdure selvatiche, qualche scatolame al mercato nero o un poco di zucchero e surrogato di caffè. Le ore passavano rinchiusi in casa, alla fioca luce delle candele o davanti al camino per i fortunati che avevano ancora un po’ di legna per accenderlo o davanti al braciere quando si trovava la carbonella. Nei piccoli paesi dell’entroterra, la vita, paradossalmente, era più facile, perché si trovavano questi pochi generi alimentari prodotti dalle famiglie contadine, che, spesso avevano anche un po’ di carne derivata da allevamenti di animali da cortile o da qualche maiale. Quando ci fu l’occupazione tedesca, dopo l’8 settembre del ’43, le situazioni si aggravarono perché i soldati tedeschi razziavano di tutto e le popolazioni, quando potevano, scappavano sulle montagne, nascondendosi in luoghi poco accessibili e dormendo nei pagliai; allora non c’erano le tante strade di montagna (troppe!) che oggi si percorrono con le auto, ma solo “tratturi” non da tutti conosciuti.
Finita la guerra, cominciò la lenta ricostruzione, con spirito di rassegnazione e con volontà di rinascere. La gente, e questo è il senso del discorso, abituata ad una vita “diversa” del periodo pre-bellico, accettò e gestì la rinascita con grande impegno e quasi con gioia per lo scampato pericolo, pur avendo subito lutti e distruzione di beni. La popolazione italiana, fino allo scoppio della guerra, ma anche durante il ventennio fascista, era rimasta una popolazione agricolo-pastorale, specie nel sud d’Italia; non conosceva il relativo lusso della città, che era riservato a determinate categorie di persone: professionisti, commercianti, imprenditori, ma che comunque non avevano tanti beni di consumo come adesso: non c’era la TV, poche radio, sale cinematografiche poche o assenti nei centri con meno di 10.000 abitanti. Gli unici svaghi erano, per poche persone, le interminabili partite a carte al “padrone e sotto” nelle “cantine” o nei “dopolavori”, di retaggio fascista, dove cominciavano a vedersi alcuni biliardi. E la “movida”? non esisteva, qualche partitella a pallone nelle piazze spopolate o nelle strade più larghe, o iniziative parrocchiali: escursioni, gite nelle città “santuari”, timidi e rari “balli” in case private al suono di Grammofoni a manovella con i dischi de “La Voce del Padrone”; la domenica, vestito della festa, messa, sosta in piazza ad oziare o parlare di sport (ascoltato alla radio) e quasi solo di calcio e ciclismo.
Dopo la 1° Guerra Mondiale, la pace per l’Europa non ci fu, vinti e vincitori non si sentirono soddisfatti e ripagati dei sacrifici causati e sopportati. In Italia, D’Annunzio, interpretò la delusione per la “vittoria mutilata”, come la chiamò, e con atto di forza occupò il Quarnaro, preparando la strada a Mussolini che, pochi anni dopo (1922), con la marcia su Roma, si impadronì dell’Italia. Per buona parte del ventennio fascista l’Italia sembrò riprendersi dalle gravi perdite subite, ma l’accordo con Hitler (patto d’acciaio), che meditava vendetta per la sconfitta subita, e sogni di dominio universale, lasciavano presagire un futuro incerto. E così fu, dopo appena vent’anni una nuova guerra mondiale, drammatica, letale, disumana, insanguinò il mondo. L’Italia cadde in ginocchio, e si risollevò con l’aiuto degli americani, che, con il famoso “piano Marshall” consentirono la ripresa, che ebbe del miracoloso (miracolo economico) e portarono l’Italia, in pochi anni, ad essere una grande Nazione industriale, diffondendo un benessere mai visto prima né immaginato. Col benessere però, iniziò il periodo del conformismo, poi della globalizzazione, poi del desiderio di tutto e di più e aumentò la distanza sociale tra ricchi e poveri. Il capitalismo occidentale è stato una grande matrice di benessere, ma ha creato i “nuovi poveri”, quelli che chiamerei “poveri relativi”; nel passato il povero era colui che non aveva niente e la vita era una lotta quotidiana per la sopravvivenza, ricerca di cibo o di alloggio. Col benessere diffuso, con la dannazione della droga, dell’alcol, del possesso dell’auto sempre più moderna e veloce, dei telefonini all’ultima moda, dei vestiti griffati, del divertimento con “sballo”, i soldi non bastano mai ed allora ci si lascia catturare da chi promette, e riesce a dare, soldi e benessere, divertimento e sogni di potere; la gioventù viene affascinata da nuovi modelli di vita e vuole imitarli a qualunque prezzo, scompaiono i modelli e gli esempi tradizionali: Stato, Istituzioni, Chiesa, Scuola, nascono nuovi miti da imitare a tutti i costi, creando così una giungla di “affamati del benessere”, privi di scrupoli, di rispetto, di etica, di senso morale, di dignità familiare e dove l’unico Dio è il Moloch del danaro.
Questa gioventù, ma direi società, perché ormai è di qualunque categoria sociale, non sa più che cosa è il sacrificio, non conosce che cosa è stata la guerra, con il travaglio fisico e morale che ha sconvolto un’intera generazione. Oggi, dopo oltre settant’anni di pace europea (mai nella storia un periodo così lungo), non si ha più il senso della sofferenza, dei sacrifici, del rispetto; è un egoismo imperante teso ad un solo, unico traguardo: benessere, parola che è il fine di ogni categoria sociale. Ed allora, quando succede un disastro come quello che stiamo vivendo, che è una guerra senza armi, senza rumore di bombe e di aerei, ma silenziosa e letale, strisciante, annunciata ogni giorno dal Bollettino dei morti e dei contagiati o dei ricoverati in terapia intensiva, si cade nel panico, nella paura, ci si sente perduti, perché, credo, non si ha paura tanto della morte, che quasi non si vede, ma per il crollo del benessere, per l’inutilità delle risorse, delle ricchezze, del ceto e del censo: la morte silenziosa non ha rispetto di nessuno. E’ una guerra di trincea che va combattuta nell’attesa. Che cosa fare? Bisogna ritrovare il senso etico della vita, ritornare ai valori patriarcali, al rapporto conviviale con i familiari, al colloquio con i figli, alle confidenze con la moglie, a ritrovare l’armonia perduta, recuperare e apprezzare il tempo, questo tempo che non bastava mai, a nessuno, tutti a correre: al lavoro in ufficio, alla scuola, alla palestra, allo stadio, alla presentazione di una nuova auto, alla cerimonia di….un correre continuo, e la casa solo come rifugio per la notte perché il mattino dopo si ricomincia! E’ un vortice che non lascia tempo per le emozioni, per la riflessione sul perché del nostro vivere, sulla causa dei nostri affanni, del nostro rincorrere qualcosa. Ma chi ci obbliga a farlo? Credo sia un antidoto per non pensare, l’impegno diventa la scusa inconscia per non entrare nel proprio “io”, per non porsi domande, ma solo per agire, come se fossimo in balia di un ingranaggio fatto di una molla perpetua che, una volta avviata, non si può più fermare.
Ma, in tutto questo, il mondo rimane sempre diviso in due, pochi ricchi e tantissimi poveri, dove anche questi hanno un solo obiettivo: sopravvivere, ogni giorno è un happening: si mangia o non si mangia? Povera umanità, che ha perduto il senso della vita, il piacere dell’alba e del tramonto, l’emozione di un sorriso di un abbraccio, di una corsa in un prato fiorito a primavera, del piacere di stare disteso sull’erba e sentire il tepore del sole sulle palpebre socchiuse, Improvvisamente tutto si rompe, quello che sembrava imprevedibile accade, si ferma il mondo, l’ingranaggio si inceppa, non ci si muove più e, come in un sogno, in un’atmosfera surreale, ci si rintana, come gli animali primitivi all’arrivo di un cataclisma: è finita la caccia, la corsa, bisogna stare in casa, seduti, rivedere i volti quasi dimenticati dei figli, dei genitori, della compagna, scrutarli e osservarli con occhi meravigliati e curiosi, come se ci si incontrasse la prima volta. Si riscopre il colore degli occhi, dei capelli, si notano i capelli bianchi dei nostri vecchi che fino a ieri sembravano statue immobili e immortali, utili per accudire i bimbi, per fare la loro parte al benessere della famiglia versando una parte della (spesso) misera pensione, o andando a scuola a prendere i bambini: vecchi come robot! Si riscopre la fragilità dell’uomo, il valore della morte, che la società del benessere aveva demonizzato, perché infastidiva il ritmo della quotidianità, il rito degli impegni quotidiani: ora è ritornata, prepotente, inesorabile, silenziosa, senza rispetto del ricco e del povero, rendendo finalmente giustizia ai torti di tanti e alla superbia degli “immortali”!
Un virus, che per definizione è un “non vita”, sta condizionando la vita del pianeta Terra, riportando all’ordine chi la Terra stessa stava distruggendo: è una vendetta dell’acqua, dell’aria, della terra quale elemento, è una rivincita della natura che ci sfida e vince, mostrandoci la nostra fragilità, la nostra pochezza, la nostra frenesia di potere, di onnipotenza. Allora bisogna lanciare un grido di allarme: fermiamoci, raccogliamo questa sfida della natura per riscoprire i veri valori della vita, riconsiderare la fragilità dell’essere umano e la facilità di come si può perdere tutto, come nel gioco d’azzardo. Non è un invito al “pauperismo”, riduttivo delle possibilità umane, che sono infinite, ma alla razionalità del vivere, al controllo del “bene sociale” che, in quanto tale, non appartiene solo a noi, ma è di tutti, e rispettiamo la natura, che, prima di essere distrutta dal genere umano, si vendica distruggendo noi.
Pasquale Simonelli
